Profumo di mare: Terra, mare, natura, cambiamento climatico, biodiversità, transizione ecologica

  1. Strategia Nazionale Marina: Ministero Ambiente e regioni costiere raggiungono accordo.

    By Filippo Foti il 22 Dec. 2012
     
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    Il Ministero dell'Ambiente e le regioni costiere italiane uniti per la protezione del mare.



    L’ammontare della spesa del Ministero è di 6 milioni di euro che sono stati assegnati, variamente distribuiti, alle 15 regioni firmatarie di tre protocolli d'intesa, per utilizzarli in attività di indagine e valutazione tecnico-scientifica sullo stato dell'ambiente marino.

    In un comunicato che si può leggere sul sito del Ministero dell'Ambiente si legge: “Viene data così attuazione della "Strategia Nazionale Marina", istituita dalla direttiva europea del 2008 che stabilisce la protezione dell'ambiente marino al fine di mantenere la biodiversità e preservare la diversità e la vitalità di mari ed oceani che siano puliti, sani e produttivi. Per la prima volta in Italia questa attività sarà svolta in modo coordinato dalle tre "sub-regioni marine" italiane in cui è diviso il Mediterraneo: Mediterraneo occidentale, mare Ionio-Mediterraneo centrale e mare Adriatico.

    Si riuscirà finalmente a determinante un impulso per il recupero dell’attrazione che il mare da sempre ha destato, come il turismo ed a fini ecologici?.
    L’elaborazione di una Strategia Nazionale per la Biodiversità si colloca nell’ambito degli impegni assunti dall’Italia con la ratifica della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD, Rio de Janeiro 1992) avvenuta con la Legge n. 124 del 14 febbraio 1994.


    I tre obiettivi principali della Convenzione sono:

    - Entro il 2020 garantire la conservazione della biodiversità, intesa come la varietà degli organismi viventi, la loro variabilità genetica ed i complessi ecologici di cui fanno parte, ed assicurare la salvaguardia e il ripristino dei servizi ecosistemici al fine di garantirne il ruolo chiave per la vita sulla Terra e per il benessere umano;
    - Entro il 2020 ridurre sostanzialmente nel territorio nazionale l’impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità, definendo le opportune misure di adattamento alle modificazioni indotte e di mitigazione dei loro effetti ed aumentando le resilienza degli ecosistemi naturali e seminaturali;

    - Entro il 2020 integrare la conservazione della biodiversità nelle politiche economiche e di settore, anche quale opportunità di nuova occupazione e sviluppo sociale, rafforzando la comprensione dei benefici dei servizi ecosistemici da essa derivanti e la consapevolezza dei costi della loro perdita.

    Il conseguimento degli obiettivi strategici viene affrontato nell’ambito delle seguenti aree di lavoro:

    1. Specie, habitat, paesaggio;
    2. Aree protette;
    3. Risorse genetiche;
    4. Agricoltura;
    5. Foreste;
    6. Acque interne;
    7. Ambiente marino;
    8. Infrastrutture e trasporti;
    9. Aree urbane;
    10. Salute;
    11. Energia;
    12. Turismo;
    13. Ricerca e innovazione;
    14. Educazione, informazione, comunicazione e partecipazione;
    15. L’Italia e la biodiversità nel mondo.


    Nell’aprile 2009, l’Italia ha ospitato a Siracusa il "G8 Ambiente" con una sessione dedicata alla Biodiversità post 2010, nel corso della quale è stata condivisa dai Ministri dell’ambiente la Carta di Siracusa sulla Biodiversità, interamente imperniata sul tema della conservazione della biodiversità nell’ambito delle future politiche nazionali. In questa occasione l’Italia è diventata promotrice di una visione della biodiversità consapevolmente inserita nell’ambito delle future decisioni e attività dei Governi.

    In quella occasione, i 21 ministri partecipanti hanno concordato, tra l’altro, che la perdita della biodiversità e la conseguente riduzione e danno dei servizi ecosistemici possa mettere a rischio l’approvvigionamento alimentare e la disponibilità di risorse idriche, nonché di ridurre la capacita della biodiversità per la mitigazione e per l’adattamento al cambiamento climatico, cosi come mettere a repentaglio i processi economici globali. Giacché dalla perdita della biodiversità e da un suo utilizzo non sostenibile scaturiscono rilevanti perdite economiche, si rendono necessari appropriati programmi ed azioni tempestive, volti a rafforzare la resilienza degli ecosistemi.


    Una strategia di comunicazione capillare che coinvolga pienamente tutti i settori, tutti i soggetti portatori di interesse, le comunità locali ed il settore privato, tale da enfatizzarne la partecipazione e circoscriverne le responsabilità, costituisce un fattore cruciale per l’effettiva attuazione del contesto post 2010 in materia di biodiversità. La riforma della governance ambientale, a tutti i livelli, è essenziale ai fini dell’integrazione della biodiversità e dei servizi ecosistemici nei processi politici, così da trasformare in opportunità quelle che oggi sono debolezze dei sistemi economici e per sostenere uno sviluppo ed un’occupazione sostenibili. Secondo quanto pubblicato dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare nel 2010 L’Italia è uno dei paesi più ricchi in Europa e del Mediterraneo in termini di biodiversità marina; delle 8.750 specie elencate nelle checklist, il 10% è nota esclusivamente per i mari italiani; delle 10 specie di Cetacei presenti con popolazioni nel Mar Mediterraneo, ben 8 possono essere considerate regolari anche nelle acque italiane.

    Secondo quanto riportato nel dossier sullo stato di salute delle coste del Mediterraneo redatto da UNEP/MAP la popolazione che abita le città costiere del Mediterraneo passerà dai 70 milioni registrati nel 2000 ai 90 milioni di abitanti entro il 2025.
    In termini di densità lineare il valore è cresciuto di tre volte nell’ultimo mezzo secolo. Si è passati infatti da 580 persone per chilometro di costa nel 1950, a 1530 nel 2000 e si prevede di arrivare a 1970 nel 2025.


    Il numero delle città costiere è quasi raddoppiato dalla scorsa metà del secolo, passando da 318 nel 1950 a 584 nel 1995; l’Italia con i suoi 196 comuni dislocati lungo gli 8000 chilometri di coste comprende da sola quasi un terzo di tutti territori urbanizzati presenti in Mediterraneo. A questo incremento demografico si aggiunge il flusso turistico: tra vent’anni saranno in 312 milioni a scegliere i litorali per trascorrere la bella stagione. Ai 175 milioni del 2000, se ne aggiungeranno altri 137 in soli 25 anni, e non senza danno. Da uno studio condotto nelle isole Baleari emerge che un turista produce in media il 50% di rifiuti solidi in più rispetto a un residente e il consumo di acqua potabile aumenta del 45%.

    La produttività e lo sviluppo antropico sono dunque concentrati lungo le coste. Il Plan Bleu stilato dall’UNEP/MAP ha censito 2.300 territori artificialmente edificati lungo il Mediterraneo nel 2000. In sostanza ce n’è uno ogni 20 km e la lista comprende, oltre alle 584 città già menzionate, 750 porti turistici, 286 porti commerciali, 13 impianti di produzione di gas, 55 raffinerie, 180 centrali termoelettriche, 112 aeroporti e 238 impianti per la dissalazione delle acque. Gli effetti di questo sviluppo, se non controllato, potrebbero determinare la distruzione degli habitat, la contaminazione da sostanze pericolose e nutrienti, l’aggravamento degli effetti del cambiamento climatico, con conseguente perdita o degrado della biodiversità.

    Gli ecosistemi marini, già messi a dura prova dall’inquinamento e dalla sovrapesca, subiscono gli effetti dell’innalzamento delle temperature e dell’acidificazione, determinati dal cambiamento climatico e all’aumento di CO2, con conseguenti mutamenti a livello della riproduzione e dell’abbondanza delle specie, della distribuzione degli organismi marini e della composizione delle comunità di plancton.
    Le ulteriori pressioni che tali cambiamenti esercitano sugli ecosistemi marini rendono ancora più urgente ricondurre lo sforzo di pesca a livelli sostenibili. Alla pesca indiscriminata, che ha reso gli ecosistemi marini più vulnerabili al cambiamento climatico e meno capaci di adattarsi, deve subentrare una pesca sostenibile.


    Nonostante gli ecosistemi marini delle acque europee siano atti a consentire un’elevata produttività degli stock ittici, la maggior parte di essi risulta depauperata a causa di un prelievo eccessivo. L’88% degli stock ittici comunitari è sottoposto a una pressione di pesca che supera il livello di rendimento massimo sostenibile (MSY): ciò significa che questi stock potrebbero raggiungere in tempi brevi livelli di collasso, con ricadute estremamente negative sia sull’ecosistema marino, sia sul mercato. Il 30% di loro si trova infatti al di sotto dei limiti biologici di sicurezza e rischia pertanto di non essere più in grado di ricostituirsi.

    La maggior parte delle flotte pescherecce europee opera in perdita o con un ritorno economico minimo, e solo una piccola parte di esse opera in condizioni di redditività senza ricorrere a finanziamenti pubblici. La sostenibilità socioeconomica della pesca non può prescindere dall’esistenza di stock ittici produttivi e da ecosistemi marini sani. Solo ripristinando e mantenendo nel lungo periodo la produttività degli stock è possibile preservare la vitalità economica e sociale del settore della pesca. A lungo termine, quindi, non vi è alcuna incompatibilità tra obiettivi ecologici, economici e sociali.

    La gestione degli stock alieutici secondo il principio del MSY offrirà un futuro migliore alle comunità di pescatori europei e garantirà il loro contributo alla sicurezza alimentare dell'Europa. Questo obiettivo deve essere raggiunto entro il 2015, in linea con gli impegni assunti a livello internazionale. A breve termine, tuttavia, può esserci e vi è effettivamente un conflitto tra questi obiettivi, soprattutto quando occorre ridurre temporaneamente le possibilità di pesca per permettere la ricostituzione degli stock che sono stati sottoposti ad eccessivo sfruttamento. In molti casi sono state addotte finalità sociali, quali il sostegno all’occupazione, per giustificare possibilità di pesca più elevate nel breve periodo, col risultato di compromettere ulteriormente lo stato degli stock e l’avvenire dei pescatori che da questi traggono sostentamento.

    È quindi essenziale che qualsiasi compromesso volto a mitigare gli effetti socioeconomici immediati di eventuali riduzioni delle possibilità di pesca sia compatibile con la sostenibilità ecologica a lungo termine, in particolare attraverso l’adozione di modelli di sfruttamento atti a consentire il rendimento massimo sostenibile, l’eliminazione dei rigetti, la riduzione dell’impatto ecologico della pesca, e l’introduzione di norme che oltre a regolamentarne l’intensità nel tempo, ne regolamentino la qualità (ad esempio norme sulla selettività delle reti, sulla riduzione dello scarto, che sono importanti per la gestione delle risorse e quindi per la ricaduta economica). La Commissione europea interverrà per garantire che la politica comune della pesca rispecchi l’approccio per ecosistemi secondo le indicazioni della Strategia per l’ambiente marino e si adopererà per eliminare la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata nelle acque europee e in alto mare.

    La moderna acquacoltura rappresenta un’importante innovazione nel campo della produzione ittica e di alimenti di origine acquatica e, fra i settori alimentari, è quello che ha registrato il più rapido sviluppo, con un tasso di crescita media del 6-8% annuo su scala mondiale.
    Attualmente fornisce circa la metà dell’approvvigionamento ittico mondiale destinato al consumo umano e presenta considerevoli potenzialità di sviluppo. Si tratta dunque di un settore chiave che consentirà di contribuire a soddisfare la futura domanda di pesce, sebbene non riduca la pressione sugli stock ittici selvatici.

    Lo sviluppo dell’acquacoltura, tuttavia, deve essere realizzato nell’ambito di un quadro normativo che favorisca l’imprenditoria e l’innovazione, garantisca il rispetto di norme rigorose per l’ambiente e la salute pubblica e risulti compatibile con un elevato livello di protezione dell’ambiente naturale. L’acquacoltura a sua volta deve poter disporre di acque della massima qualità per garantire la salute degli animali acquatici da cui dipendono tra l’altro la sicurezza e la qualità dei prodotti.


    Complessivamente l’ambiente marino è sottoposto a gravi minacce che possono essere schematicamente raggruppate in sei punti:
    - l’inquinamento “tellurico” (proveniente dalla terraferma) e in particolare: l’eutrofizzazione e l’inquinamento da sostanze pericolose e nutrienti provenienti dall’agricoltura, lo scarico di rifiuti provenienti dalle attività industriali, dal turismo e dalla crescita urbanistica indotta dall’aumento e dalla concentrazione demografica;
    - la pesca e il generale sfruttamento eccessivo delle risorse biologiche marine da parte di flotte nazionali e internazionali, e soprattutto a causa della pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata;
    - l’introduzione volontaria e involontaria di specie aliene invasive attraverso le acque di zavorra delle navi, il fouling, le importazioni di specie e agenti patogeni non indigeni;
    - il traffico marittimo commerciale e da diporto;
    - l’alterazione fisica degli habitat costieri;
    - il cambiamento climatico.

    Le minacce sopra riportate determinano una rilevante perdita o il degrado della biodiversità e le alterazioni della sua struttura, attraverso la contaminazione e la distruzione delle specie, degli habitat e degli ecosistemi. Le conseguenze sono rappresentate da gravi danni agli stock oggetto di pesca, alle comunità planctoniche e bentoniche, all’economia della pesca e dell’acquacoltura, alle risorse paesaggistiche e naturalistiche su cui si fonda il turismo.

    L’aspetto più allarmante è che queste pressioni negative, nonostante le politiche ambientali attuate negli ultimi anni, sono ancora in forte e costante crescita e hanno ormai raggiunto un livello che può portare rapidamente a crisi sistemiche di ampia portata.
    Come è evidente tutte queste minacce sono fortemente tra loro interconnesse e necessitano pertanto di strumenti in grado di garantire una reale governance, attraverso una effettiva politica integrata del mare e delle coste.

    In anticipo dunque di due anni sulle scadenze fissate dalla direttiva, il nostro paese interviene per sviluppare in modo sistematico le conoscenze sulle condizioni del mare e per determinare il livello di "buono stato ecologico" dell'ambiente marino”.
    Questa strategia d'azione ambientale per lo sviluppo sostenibile è in linea con le direttive dell'U. E., che fissano come scadenza per il raggiungimento dei parametri di “buono stato ambientale” degli ambienti costieri il 2020. Queste attività si devono raggiungere con una azione sinergica tra le regioni italiane bagnate dal Mediterraneo.

    Questa intesa non fa altro che rafforzare il fermo no della Regione Basilicata alla concessione di nuovi permessi di ricerca di idrocarburi nel mar Jonio di cui ne abbiamo spesso parlato attraverso queste pagine e sul nostro diario di Facebook: https://www.facebook.com/groups/123258664351377/
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